La triste realtà!
Pubblicato da Corsaro
La bancarotta dei contadini. Lombardia la campagna nell’era della borsa |
Data di pubblicazione: 18.10.2008 |
Autore: Visetti, Giampaolo |
Vittime di una concezione ancora pericolosamente arcaica dell’agricoltura. La Repubblica, 21 giugno 2008 |
La fattoria dell’Europa porta al mercato il suo ultimo prodotto: i suicidi. Tra Cremona, Brescia, Mantova e Reggio nell’Emilia, in due anni, sono aumentati del 32 per cento. Disprezzata e infine ignorata, corrosa dalle crisi, l’agricoltura italiana espelle la scoria estrema: gli uomini. La condanna si consuma mentre la domanda di cibo, ed i prezzi, esplodono. Troppo tardi. Nelle cascine si cercano braccia, ma non ci sono più nemmeno le teste. I vecchi tornano con gli occhi agli anni Cinquanta, spartiacque tragico della fuga dalle campagne. Il granista Doriano Zanchi, 36 anni, è stato trovato nella corte due giorni fa. Ha avviato il trattore. Poi si è seduto davanti, contro il porticato. Nelle golene, lungo il Po, sono i pioppi a proteggere chi, ricontrollato l’estratto conto, si affida a certi rami leggeri. Un invisibile, drammatico passaggio storico sta spazzando via chi si è ostinato ad aggrapparsi alla terra: la contro-rivoluzione dell’agricoltura virtuale, fondata su aziende senza contadini e su prodotti senza valore. Se anche la Baviera italiana liquida silenziosamente la sua anima, significa che il processo è irreversibile. Egidio Franzoni cammina tra i meloni che la pioggia fa maturare attorno a Goito. A chi appartiene questo campo? Nessuno lo sa. Fino a tre anni fa era dei cugini. Tradizione secolare. Adesso una società rimanda all’altra. Si dividono le quote i fornitori di semi e di concimi, il grossista e l’industriale, la banca mantovana acquistata da Siena. Anche Marco Stazzini, sotto Dosolo, ignora il nome del padrone della sua stalla, appoggiata tra seicento biolche di frumenti. Sei mesi fa l’istituto di credito l’ha ceduta ad una finanziaria. Ora è il contoterzista a fornire macchine, stallieri indiani e braccianti marocchini. Le 200 vacche olandesi arrivano dalla multinazionale che gli vende i mangimi. Il brooker gli comunica la sigla del grossista, il direttore commerciale della grande distribuzione fissa il prezzo del latte. All’allevatore mantovano, soffocato dall’ennesima impennata dai costi, restano l’ipoteca sulla terra e il governo delle bestie: mungitura alle 4, smaltimento del liquame alle 22. Un finto proprietario alle dipendenze di un padrone ignoto. «Il Paese – dice lo storico dell’economia Marzio Romani – sta perdendo il controllo dell’agricoltura. è un problema enorme, anche di democrazia». Se il cibo è la fonte di energia essenziale, il confronto con la psicosi atomica e petrolifera appare ridicolo. Lombardia ed Emilia, squassate dal cortocircuito borsistico di cereali e combustibili, sono prigioniere degli scioperi del latte e del maiale, che stanno sconvolgendo l’Europa. Migliaia di contadini, in balìa delle speculazioni finanziarie, oscillano tra le decine di «Farmer Market» settimanali e i cinque «signori» che decidono quanto vale un chilo di carne. Seguire il viaggio di una bistecca significa penetrare nel buio che, salendo dalle campagne, inghiotte la civiltà metropolitana del micro-onde. Lo hanno fatto due fratelli di Asola. Uno choc. Sette padroni, prima che una fettina in sette mesi passi dalla stalla al piatto. L’allevatore che fa nascere il vitello in Danimarca. Il mediatore tedesco che lo vende ad un produttore di Suzzara. Il macellaio della «Unipeg» di Pegognaga che lo fornisce al direttore acquisti dell «Cremonini». Il commesso di Auchan che lo vende alla professoressa di Gonzaga. «Nessun bene al mondo – dice Cristian Odini, agricoltore di San Prospero – fa tanti passaggi in così poco tempo. Tutti devono guadagnare, lo scarto è del 30%». Esplode il prezzo al consumo, crolla quello all’origine. è qualcosa di più profondo della nostalgia e del paesaggio, di più sostanziale del libero mercato e del potere dei fondi americani. Andrea Biagi, a Roverbella, coltiva fragole. Trenta centesimi al cestino, fino al maggio 2007. Ha allargato le serre, trent’anni di vita sulla lama del mutuo. «Da tre mesi – dice – siamo sommersi da navi di fragole salpate da Grecia, Spagna e Africa. Dieci centesimi a vaschetta. O vendo direttamente, o chiudo». è così che il contadino, beffato dalla politica debole che nasce e muore in ufficio, scompare dalla società. «Per avviare dal nulla una fattoria media – dice Antonio Negro, patriarca degli allevatori di Formigosa – servono tra i 2 i 3 milioni di euro. Le banche ti stritolano, un crimine legalizzato: ti aprono l’ombrello se c’è il sole, te lo chiudono quando piove. Se uno è bravo, dopo una vita di sacrifici, ricava 1300 euro netti al mese. Laurearsi costa meno e rende di più: nessun giovane capace può restare nei campi». Un cortocircuito di civiltà: in Meridione, negli ultimi dieci anni, lo spopolamento agricolo ha travolto quota 56%. A suonare è la campana di un incubo: la qualità dei prodotti italiani ignorata dal mercato globale che pretende quantità. «Ci hanno costretto a ingrandirci – dice Mario Caleffi, coltivatore di mais a Commessaggio – a investire sulla competitività, a produrre sempre di più, a puntare tutto sulla qualità. Ma la gente non ha più soldi per pagare la qualità del cibo sano. Se ne frega: chi è grande chiude, chi ha tagliato i dipendenti cade in pugno ai terzisti, i terreni esausti impongono sempre più concimi chimici, la grande distribuzione paga prosciutti di Parma e grana padano come salumi e formaggi importati dalla Romania». Se fino ad oggi è stato il «cambiamento» a segnare la storia delle campagne, nella Borsa agricola di Mantova il giovedì mattina ora si pronuncia, a voce bassa, la parola «estinzione». Il pomeriggio, a Bologna, ci si spinge oltre: fino a riflettere, partendo dall’epocale crollo del prezzo dei maiali, sul significato della domanda di «territorio» che sgorga dal Nord. «Governi e organizzazioni internazionali – dice lo storico dell’agricoltura Eugenio Camerlenghi – non controllano più la produzione alimentare. Da servo della gleba, l’agricoltore è diventato schiavo della «globa». Decisiva è la riduzione della libertà di usare lo spazio: piazze, fiumi, campagna». Si nasconde qui, nella decimazione della società contadina, l’ossessione locale che impone di odiare Roma, Bruxelles, l’America e la Cina. Sfrattata dalla terra, espulsa dal territorio, la gente si tuffa nella territorialità. I nuovi orfani sociali, costretti a regalare latte e ad estirpare barbabietole, chiedono protezione ai profeti della xenofobia. «In dieci anni – dice il mantovano Roberto Borroni, presidente di Agrisviluppo – i parlamentari espressi dagli agricoltori sono passati a 90 a 2. La politica li ignora, i sindacati di categoria conservano l’ideologia contrapposta della Guerra Fredda. I contadini sono più divisi e disorientati che mai: erano la civiltà dell’equilibrio, presto saranno la leva di una rivoluzione». Possibile, proprio adesso? Sono dieci mesi che, secondo i listini, il misterioso boom dei cereali trascina le rendite agrarie. India e Cina mangiano di più e lavorano di meno, gli speculatori affittano e riempiono magazzini clandestini, gli Usa fanno la guerra energetica alla Russia parlando di biodiesel. Perché, se il valore aggiunto cresce del 7%, nelle cascine cova la rivolta? Nessuno che infili un paio di buone scarpe coi lacci e si perda tra manze e onde di erba medica. Di notte, tra Castiglione e Luzzara, le piste arginali sono intasate di cisterne. Si vive di contributi Ue anche nella pianura padana: ma le bestemmie sono tutte contro l’Europa. Autisti clandestini versano nei fossi montagne di letame e oceani di urina. «Bevevamo dai ruscelli – dice Luigina Mattioli, maestra di salami – ora ci si ammala a guardarli». Leggi incomprensibili, quanto sacrosante, costringono ad affittare terreni per smaltire i liquami, di un sorprendente odore chimico. Poche cose, come gli odori, fanno pensare. Plichi di altre
Avevo già segnalato questo articolo in un precedente post ma, ahimè, pur essendo “vecchio” di un anno è tremendamente attuale. Merita una attenta lettura. (By Corsaro)
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3 Commenti »
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marzia dice:
Pubblicato il 11 06 2009 alle 07:55
è tutto da ripensare: la campagna, la collina, la montagna. abbiamo perso il senso del limite, si è sconvolto tutto.
ci pensavo l’altro giorno, in montagna, mentre tiravamo il filo per le vacche tra prati invasi dal bosco. ogni tanto c’era un “gradino”, segno che lì l’uomo aveva addomesticato la montagna, la coltivava, aveva ricavato spazi.
e adesso? abbandono, va ancora bene che sale qualche margaro, qualche pastore.
gli affitti degli alpeggi hanno costi spropositati, quindi bisogna avere tante bestie per cercare di salvarsi… ma troppe rovinano il territorio, e poi aumentano i costi e la carne vale sempre meno.
non so, ma mi sembra che ci sia da fare tabula rasa e ripartire da zero (metaforicamente), la strada che stiamo seguendo non è quella giusta!
2
cip&ciop dice:
Pubblicato il 11 06 2009 alle 19:23
ma che bel quadretto, non resta che un buon analista!
3
Corsaro dice:
Pubblicato il 11 06 2009 alle 22:48
Non credo che basti!