Corsari del Gusto®

liberi pensieri di un contadino della provincia di Cuneo e dei suoi amici

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Alta Langa: il castello di Prunetto

Siamo in Val Bormida, alta Langa.

Si pregano i lettori un pò troppo “fini”  di abbandonare la lettura.

Qui non c’è la Langa delle cartoline perfettine, del boom enogastronomico, del “sei stato nelle Langhe?”,  dei vini buoni, puliti e giusti, delle villazze, dei nani da giardino, del megamutuo per fare 8 metri quadri di cantina (è un investimento, ecchecazzo!), delle costruzioni futuristiche fatte dai guru che, in verità,  fanno schifo ma, i leccaculo, che abbondano, considerano “creazioni artistiche”, dei plin per turisti, delle “vasche” in Via Maestra, del “ohhh che meraviglia, sembra un acquarello!”,  del “a settembre i colori sono bellissimi”, del “esporto quasi tutto in U.S.A”, del  “Tokio è il futuro”, del “bisogna farle tutte” (le fiere), del pick up per fare la spesa…(ma dai, senza offesa, la mia è tutta invidia!)

Qui siamo in una ex zona depressa, forse lo è ancora, dove la gente ha dovuto lottare con i fantasmi dell’isolamento, della fortuna dei vicini, (che fa ombra) e anche di quella vicenda, vergognosa,  che è durata quasi un secolo: l’ACNA di Cengio. (clicca e leggi i fatti)

Domenica 21 giugno 2009 i Corsari del Gusto erano a Prunetto (CN) presenti al battesimo di una associazione di 20 produttori dell’alta Langa, nata per valorizzare le loro leccornie. (clicca e leggi) Che dire? Un posto da favola, un panorama selvaggio come natura a fatto, noccioleti ogni dove, un castello che domina ed è stato recuperato e restaurato grazie alla lungimiranza di una amministrazione locale determinata.

Insomma,  niente offerte dagli effetti speciali, riempipista studiati a tavolino dai markettari del gusto mascherati da nonnina di capuccetto rosso,  ma una offerta a misura di famiglia: pic nic nel prato attorno al castello con piatto di specialità (2 euro) , visita giudata nel suo interno che ospita anche un piccolo museo di attrezzature agricole del passato e, unico nella galassia,  (lo dice lo staff) il museo del mulo. Eggià il mulo: il simbolo per autonomasia del vero alpino doc (“Di qui non si passa”). Concentrati in due stanze del castello, all’ultimo piano, tutte le attrezzature che servivano nella gestione dei muli che prestavano servizio militare nel corpo degli alpini.

Andateci che è una gita “normale”! (By Corsaro)

L’ottimismo del Signor Ministro

(Newsletter del Ministro Luca Zaia)

PIL, AGRICOLTURA IN CONTROTENDENZA OCCORRE CONTINUARE A SCOMMETTERE SUL FUTURO

 

Non esiste una grande economia senza una grande agricoltura. E’ necessario dunque l’impegno di tutti affinché si continui a dedicare la massima attenzione a questo comparto strategico dell’economia nazionale. I dati forniti oggi dall’Istat dimostrano che il settore primario è l’unico a registrare un incremento: un risultato positivo, che è anche un ulteriore stimolo ad investire sulla qualità, sull’innovazione e sulla modernizzazione dell’agricoltura italiana.
 
Il valore aggiunto in agricoltura su base tendenziale aumenta dello 0,1 per cento rispetto allo scorso anno, dato che rivela come l’agricoltura non sia in linea con la frenata che caratterizza l’economia nazionale. 

I numeri confermano che siamo sulla strada giusta: il comparto tiene e questo è un motivo in più per proseguire con tenacia sulla strada intrapresa, continuando a lavorare per garantire una maggior competitività dell’agricoltura ita liana, per promuovere l’imprenditorialità giovanile e per combattere speculazioni e frodi.

Il rinascimento agricolo è iniziato, dobbiamo continuare a muoverci sulla strada delle riforme, bypassando gli ostacoli, combattendo il pessimismo e sconfiggendo tutte i ritardi e le ottusità che possono frenare questo percorso.

 

La triste realtà!

La bancarotta dei contadini. Lombardia la campagna nell’era della borsa

Data di pubblicazione: 18.10.2008

 

Autore: Visetti, Giampaolo

 

 

Vittime di una concezione ancora pericolosamente arcaica dell’agricoltura. La Repubblica, 21 giugno 2008

 

La fattoria dell’Europa porta al mercato il suo ultimo prodotto: i suicidi. Tra Cremona, Brescia, Mantova e Reggio nell’Emilia, in due anni, sono aumentati del 32 per cento. Disprezzata e infine ignorata, corrosa dalle crisi, l’agricoltura italiana espelle la scoria estrema: gli uomini. La condanna si consuma mentre la domanda di cibo, ed i prezzi, esplodono. Troppo tardi. Nelle cascine si cercano braccia, ma non ci sono più nemmeno le teste. I vecchi tornano con gli occhi agli anni Cinquanta, spartiacque tragico della fuga dalle campagne. Il granista Doriano Zanchi, 36 anni, è stato trovato nella corte due giorni fa. Ha avviato il trattore. Poi si è seduto davanti, contro il porticato. Nelle golene, lungo il Po, sono i pioppi a proteggere chi, ricontrollato l’estratto conto, si affida a certi rami leggeri. Un invisibile, drammatico passaggio storico sta spazzando via chi si è ostinato ad aggrapparsi alla terra: la contro-rivoluzione dell’agricoltura virtuale, fondata su aziende senza contadini e su prodotti senza valore. Se anche la Baviera italiana liquida silenziosamente la sua anima, significa che il processo è irreversibile. Egidio Franzoni cammina tra i meloni che la pioggia fa maturare attorno a Goito. A chi appartiene questo campo? Nessuno lo sa. Fino a tre anni fa era dei cugini. Tradizione secolare. Adesso una società rimanda all’altra. Si dividono le quote i fornitori di semi e di concimi, il grossista e l’industriale, la banca mantovana acquistata da Siena. Anche Marco Stazzini, sotto Dosolo, ignora il nome del padrone della sua stalla, appoggiata tra seicento biolche di frumenti. Sei mesi fa l’istituto di credito l’ha ceduta ad una finanziaria. Ora è il contoterzista a fornire macchine, stallieri indiani e braccianti marocchini. Le 200 vacche olandesi arrivano dalla multinazionale che gli vende i mangimi. Il brooker gli comunica la sigla del grossista, il direttore commerciale della grande distribuzione fissa il prezzo del latte. All’allevatore mantovano, soffocato dall’ennesima impennata dai costi, restano l’ipoteca sulla terra e il governo delle bestie: mungitura alle 4, smaltimento del liquame alle 22. Un finto proprietario alle dipendenze di un padrone ignoto. «Il Paese – dice lo storico dell’economia Marzio Romani – sta perdendo il controllo dell’agricoltura. è un problema enorme, anche di democrazia». Se il cibo è la fonte di energia essenziale, il confronto con la psicosi atomica e petrolifera appare ridicolo. Lombardia ed Emilia, squassate dal cortocircuito borsistico di cereali e combustibili, sono prigioniere degli scioperi del latte e del maiale, che stanno sconvolgendo l’Europa. Migliaia di contadini, in balìa delle speculazioni finanziarie, oscillano tra le decine di «Farmer Market» settimanali e i cinque «signori» che decidono quanto vale un chilo di carne. Seguire il viaggio di una bistecca significa penetrare nel buio che, salendo dalle campagne, inghiotte la civiltà metropolitana del micro-onde. Lo hanno fatto due fratelli di Asola. Uno choc. Sette padroni, prima che una fettina in sette mesi passi dalla stalla al piatto. L’allevatore che fa nascere il vitello in Danimarca. Il mediatore tedesco che lo vende ad un produttore di Suzzara. Il macellaio della «Unipeg» di Pegognaga che lo fornisce al direttore acquisti dell «Cremonini». Il commesso di Auchan che lo vende alla professoressa di Gonzaga. «Nessun bene al mondo – dice Cristian Odini, agricoltore di San Prospero – fa tanti passaggi in così poco tempo. Tutti devono guadagnare, lo scarto è del 30%». Esplode il prezzo al consumo, crolla quello all’origine. è qualcosa di più profondo della nostalgia e del paesaggio, di più sostanziale del libero mercato e del potere dei fondi americani. Andrea Biagi, a Roverbella, coltiva fragole. Trenta centesimi al cestino, fino al maggio 2007. Ha allargato le serre, trent’anni di vita sulla lama del mutuo. «Da tre mesi – dice – siamo sommersi da navi di fragole salpate da Grecia, Spagna e Africa. Dieci centesimi a vaschetta. O vendo direttamente, o chiudo». è così che il contadino, beffato dalla politica debole che nasce e muore in ufficio, scompare dalla società. «Per avviare dal nulla una fattoria media – dice Antonio Negro, patriarca degli allevatori di Formigosa – servono tra i 2 i 3 milioni di euro. Le banche ti stritolano, un crimine legalizzato: ti aprono l’ombrello se c’è il sole, te lo chiudono quando piove. Se uno è bravo, dopo una vita di sacrifici, ricava 1300 euro netti al mese. Laurearsi costa meno e rende di più: nessun giovane capace può restare nei campi». Un cortocircuito di civiltà: in Meridione, negli ultimi dieci anni, lo spopolamento agricolo ha travolto quota 56%. A suonare è la campana di un incubo: la qualità dei prodotti italiani ignorata dal mercato globale che pretende quantità. «Ci hanno costretto a ingrandirci – dice Mario Caleffi, coltivatore di mais a Commessaggio – a investire sulla competitività, a produrre sempre di più, a puntare tutto sulla qualità. Ma la gente non ha più soldi per pagare la qualità del cibo sano. Se ne frega: chi è grande chiude, chi ha tagliato i dipendenti cade in pugno ai terzisti, i terreni esausti impongono sempre più concimi chimici, la grande distribuzione paga prosciutti di Parma e grana padano come salumi e formaggi importati dalla Romania». Se fino ad oggi è stato il «cambiamento» a segnare la storia delle campagne, nella Borsa agricola di Mantova il giovedì mattina ora si pronuncia, a voce bassa, la parola «estinzione». Il pomeriggio, a Bologna, ci si spinge oltre: fino a riflettere, partendo dall’epocale crollo del prezzo dei maiali, sul significato della domanda di «territorio» che sgorga dal Nord. «Governi e organizzazioni internazionali – dice lo storico dell’agricoltura Eugenio Camerlenghi – non controllano più la produzione alimentare. Da servo della gleba, l’agricoltore è diventato schiavo della «globa». Decisiva è la riduzione della libertà di usare lo spazio: piazze, fiumi, campagna». Si nasconde qui, nella decimazione della società contadina, l’ossessione locale che impone di odiare Roma, Bruxelles, l’America e la Cina. Sfrattata dalla terra, espulsa dal territorio, la gente si tuffa nella territorialità. I nuovi orfani sociali, costretti a regalare latte e ad estirpare barbabietole, chiedono protezione ai profeti della xenofobia. «In dieci anni – dice il mantovano Roberto Borroni, presidente di Agrisviluppo – i parlamentari espressi dagli agricoltori sono passati a 90 a 2. La politica li ignora, i sindacati di categoria conservano l’ideologia contrapposta della Guerra Fredda. I contadini sono più divisi e disorientati che mai: erano la civiltà dell’equilibrio, presto saranno la leva di una rivoluzione». Possibile, proprio adesso? Sono dieci mesi che, secondo i listini, il misterioso boom dei cereali trascina le rendite agrarie. India e Cina mangiano di più e lavorano di meno, gli speculatori affittano e riempiono magazzini clandestini, gli Usa fanno la guerra energetica alla Russia parlando di biodiesel. Perché, se il valore aggiunto cresce del 7%, nelle cascine cova la rivolta? Nessuno che infili un paio di buone scarpe coi lacci e si perda tra manze e onde di erba medica. Di notte, tra Castiglione e Luzzara, le piste arginali sono intasate di cisterne. Si vive di contributi Ue anche nella pianura padana: ma le bestemmie sono tutte contro l’Europa. Autisti clandestini versano nei fossi montagne di letame e oceani di urina. «Bevevamo dai ruscelli – dice Luigina Mattioli, maestra di salami – ora ci si ammala a guardarli». Leggi incomprensibili, quanto sacrosante, costringono ad affittare terreni per smaltire i liquami, di un sorprendente odore chimico. Poche cose, come gli odori, fanno pensare. Plichi di altre
norme proibitive, come recinti alti 2 metri e mezzo o luce elettrica nei fienili, suggeriscono di risparmiare scaricando tutto nel canale più vicino. La lezione delle quote-latte, termine di rottura del mondo agricolo, non è stata compresa. La finzione a pagamento su Ogm e Bio, mina anche l’ultima fiducia. «Ogni posto vacca – dice Elisabetta Poloni, presidente della Cia mantovana – arriva a costare 6 mila euro. L’Italia, a Bruxelles, conta meno della Lituania. Gli uffici Ue governano il 99% dell’agricoltura: non abbiamo nemmeno tecnici capaci di tradurre le direttive. A trattare ci presentiamo in venti: gli altri Paesi ne mandano uno». Una nazione attenta, reduce dalla spaventosa stagionalità perenne riprodotta nei supermercati, cercherebbe di capire perché, lo stesso pezzo di formaggio, oscilla tra 6 e 13 euro al chilo a seconda delle ore. Perché il grano duro è salito da 190 a 500 euro a tonnellata in tre giorni. Perché il riso è sparito. Perché un litro di latte costa 37 centesimi e viene venduto a 160. Perché un anno fa il siero veniva regalato, poi è stato quotato e oggi si torna a consegnare gratis. Perché i pollai del Veronese, in tre anni, sono caduti nelle mani di banche e industrie che forniscono pulcini, lampade a raggi infrarossi e mangime. è bastata una nave di soia americana, ferma nel porto di Ravenna, a far saltare tre contadini di Reggiolo. «La protesta che devasta l’Italia – dice Benedetto Orsini, proprietario di un’azienda modello a Castel d’Ario – affonda nel tradimento della campagna. L’assalto ai campi nomadi e ai centri di raccolta dei clandestini, il rifiuto politico dell’Europa, sono il precipitato di un abbandono sociale senza precedenti. Fattorie, paesi, periferie e città di storia agricola, consegnate a euroburocrati corrotti e finanzieri senza volto che operano dai paradisi fiscali. L’euro è un pretesto: a Roma non si capisce che la rabbia di chi produce cibo si sta saldando con l’odio di chi lo consuma». Le sera i campi di pannocchie, a Sabbioneta, ricordano i parchi pubblici. Ex contadini, finiti a fare i gelatai e i centralinisti, cercano la vita perduta nelle corti abbandonate dell’infanzia. Dimezzati in dodici anni. Ridotta ad un terzo la superficie coltivata. «Sembra che il problema – dice Fabio Spazzini, orticoltore di Guidizzolo – sia proteggere la diversità dei prodotti tipici. Si parla di marchi, mentre il cambiamento è radicale: la possibilità di coltivare torna nelle mani di pochissime dinastie estranee all’agricoltura. L’energia alimentare è la nuova arma di scambio nella lotta per il potere globale». Emilia, Lombardia e Veneto, regno degli ex metalmezzadri salvati dai consorzi, naufragano tra i profitti dell’onnipotente grande distribuzione. Il rigoglioso ceto dei capitalisti un mutande, prigionieri della terra perduta, sconvolge così il proprio profilo. Aprono agritur, fondano mercati contadini, piantano distributori di latte crudo, spacciano culatelli, inaugurano fattorie didattiche, organizzano spettacoli nelle aie. è il dramma negato di un Paese che finge di investire su salute, natura e alimenti genuini: i contadini cacciati dai campi e ridotti a sovvenzionati giardinieri, cuochi, venditori ambulanti, attori e locandieri. «Qui vivevano – dice Ferdinando Boccalari, erede della meravigliosa Corte Virgiliana di Andes – 150 persone. Un paese, pieno di bambini. Si fermavano papi e regine. Oggi, con 200 ettari coltivati e 550 animali, stentiamo in tre famiglie. Vendita diretta e multifunzionalità non sono una scelta per guadagnare di più: contribuiscono a limitare i debiti a fine mese. Migliaia di coltivatori e di allevatori dipendono dal cartello di un pugno di industrie, che impongono la dieta a milioni di persone. L’agricoltura italiana sta fallendo e nessuno alza un dito». Nelle trattorie della Bassa mantovana e del Reggiano, protetti da qualche sorso di lambrusco, i vecchi riconoscono di aver commesso molti errori: i veleni, il saccheggio del territorio, la monocoltura, le truffe sui contributi, la divisione ideologica e sindacale. L’illusione che il villano potesse mangiare più bollito del vescovo. Colpe però insufficienti a giustificare un Paese mediterraneo costretto a importare il 65% del fabbisogno alimentare, con scorte di tre giorni e un rincaro del cibo del 7,3% in un anno. è allora importante che a Villastrada, mentre partiti e televisione si affannano attorno alle nozze di Briatore e ai soldati mimetizzati nelle aiole di Milano, si ricominci a parlare di lumache, zucche, rane, meloni. Il mugnaio Romolo Perteghella dice che la terra, se ospita varie specie, riesce a tenere a bada da sé i parassiti. Alex Odini, giovane agrotecnico, dice che con altre dieci vacche potrà recuperare un campo per l’orzo. Giorgio Zombini, miscelatore di mangime, dice ha il patto di fiducia tra «produttore e consumatore» può essere recuperato. Giulio Sereni, potenza dei maiali che si ostina a chiamare suini, promette di denunciare i consorzi che vendono «salumi freschi italiani» con bestie surgelate e importate dalla Cina. Può essere che le confuse discussioni da stalla, la minaccia di presìdi e scioperi, servano ad esorcizzare la paura di aver consumato un ruolo. La sensazione però è che solo da qui, dalla riappropriazione della sua semplice e periferica identità colonica, il Paese possa attingere le risorse civili per costruire una società meno precaria. A Suzzara è sabato mattina e sul mercato contadino piove. Si vendono le prime pere mirandoline, piccole pesche di orto, latte fresco senza certificati, coste e catalogna, ciliegie della Ferrovia, formaggio di trenta mesi, qualche gallina e pochi pani di burro giallo. Prezzi da anni Settanta. I coltivatori parlano della fine di un «fiol put»: ieri sera un altro allevatore, stritolato dal mutuo sui prati per conservare cento vacche, si è buttato nella porcilaia. Sembrano rivoluzionari, partigiani di una nuova resistenza, cospiratori impegnati nel far cadere un regime. Non è il caso di sorridere, forse, con la nota sufficienza.

 

Avevo già segnalato questo articolo in un precedente post ma, ahimè, pur essendo “vecchio” di un anno è tremendamente attuale.

Merita una attenta lettura. (By Corsaro)

Ben fatto Signor Ministro!

Luca Zaia, ministro delle politiche agricole, sembra un rullo compressore. (Clicca per vedere il suo sito) Deciso e tenace procede a testa bassa sulla strada delle “pulizie di primavera”!

Innumerevoli sequestri di “roba” alimentare dalla dubbia origine, scaduta, semicongelata pronta, come in un ultimo caso a divenire “leccornia IGP made in Italy”. Ma la proposta che più mi ha colpito, favorevolmente, è questa:

Dobbiamo superare il gap costituito dai prezzi della terra, per consentire ai ragazzi che hanno la passione e le competenze necessarie per impegnarsi nel settore primario di farlo. Per questo con il Ministro Bossi e il Ministro Tremonti stiamo lavorando a una riforma che dia terreni demaniali ai giovani agricoltori

Parlando oggi ai trecento studenti dell’Istituto Agrario Vincenzo Luparia a San Martino di Rosignano Monferrato in provincia di Alessandria, ho voluto sottolineare che le competenze che vengono acquisite sono preziose e non vanno sottovalutate. Il mondo dell’agricoltura è sempre più specialistico, quindi, è importante che si apprendino e si studino e che, mi rivolgo a tutti i ragazzi che mi stanno leggendo, non vi facciate fuorviare dall’idea di guadagnare presto. Quello dell’agricoltore è un lavoro complesso e di grande responsabilità.

Stiamo lavorando a un piano agrario che consenta ai giovani di tornare alla terra. Recupereremo terreni coltivabili che ad oggi giacciono inutilizzati. Chi ama la terra e la conosce deve avere l’opportunità di avviare la propria azienda agricola.
 
L’agricoltura ha bisogno di essere rinnovata e questo si fa con le competenze, con la ricerca e con le nuove generazioni, cui spetta di dare ad essa un futuro degno delle molteplici tradizioni che ne hanno fatto il campione dei prodotti tipici, il nostro atlante nazionale ne vanta ben quattromila e cinquecento.
 
Recuperando questa terra riusciremo non solo ad aumentare la competitività della nostra agricoltura ma anche migliorare e qualificare il comparto occupazionale.

Gran lavoro signor Ministro! Forse un giorno vedremo la nostra bella Italia ripulita dai gattopardi, dalla polvere, dall’immobilismo, dai burocrati del non fare, dalle lobby, dal potere oscuro delle banche, che prestano carta (soldi) a fronte di garanzie di beni materiali (immobili, terreni, ecc.).

Forse è solo un sogno che, comunque, vale la pena sognare. (By Corsaro)